• Marzo

    24

    2020
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COVID-19

COVID-19

In questo periodo mi capita di lavorare molto sull’emergenza legata al covid-19, prendendomi cura di persone che stanno seguendo le ordinanze ministeriali e si trovano in casa da settimane, spaventate e angosciate da quanto sta accadendo, sconvolte e scosse dalle immagini di morte mandate in onda durante il telegiornale o che è possibile vedere su internet. Mi capita di lavorare sull’emergenza legata al covid-19 occupandomi di tante persone preoccupate per la salute dei loro familiari, la mamma o una sorella o piuttosto uno zio, che lavorando in ospedale potrebbero essere contagiati dalle persone che assistono o da colleghi che sono stati già contagiati. Mi sto occupando di medici e infermieri duramente provati sul piano emotivo a causa dei turni estenuanti che sembrano non avere mai fine ma soprattutto a causa delle condizioni in cui sono costretti a lavorare, senza adeguati dispositivi di protezione, impossibilitati a chiedere permessi o malattia, non sottoposti a tampone se si ammalano, a meno che la sintomatologia non si aggravi e non subentrino gravi difficoltà respiratorie. Non sono tutelati dalle Istituzioni. Tutto questo perchè le risorse sono insufficienti e ognuno di loro, ogni medico, ogni infermiere, diventa indispensabile.

Pertanto la loro paura e la loro angoscia sono molto forti, la paura di essere contagiati, di ammalarsi, la paura di poter morire. Ma accanto a questo vissuto di paura ce ne è un altro … l’impotenza di non poter salvare tutti, di non avere respiratori sufficienti per tutte le persone che sono in gravi condizioni ed in terapia intensiva, l’essere costretti a decidere a chi dare una possibilità in più di sopravvivenza e a chi no.

Ciò che osservo è che durante il turno in ospedale prende il sopravvento la loro dedizione e la loro passione, la loro vocazione oserei dire anche, per il proprio lavoro e per la cura del prossimo. Questo infonde loro coraggio, dà loro l’illusione in quelle lunghe ore di lavoro di essere onnipotenti, degli eroi, dei cuor di leone pronti a salvare tutte le persone malate e questo è un assetto mentale difensivo che potrei definire adattivo in questo particolare e speciale contingente. Un assetto mentale che rende loro possibile riuscire in qualcosa che probabilmente altrimenti non lo sarebbe, ed in primis rende possibile la sopravvivenza psichica. Emblematiche sono le parole di una donna medico che sembrano rappresentare molto bene questo assetto mentale: “quando si avvicina il mio turno, indosso il cappotto, sempre lo stesso per evitare di ‘contaminare’ gli altri cappotti, come fosse il costume di wonder woman, come fosse la mia armatura ed esco orgogliosa e fiera per andare in ospedale, mi sento forte”, compiendo al tempo stesso il gesto di sporgere il petto in avanti per rendere meglio l’idea.

Ma c’è un momento in cui quel coraggio, quell’illusione di onnipotenza iniziano a vacillare … iniziano a sgretolarsi. Questo accade quando non ci si trova più nelle corsie dell’ospedale, quando non si è più impegnati a fare la spola da un letto all’altro per assistere i malati … quando, di ritorno dal proprio turno di lavoro, ci si ritrova a casa, ‘soli’ con se stessi… è allora, in quel momento che quel coraggio, quell’illusione devono fare i conti con la paura, con l’angoscia, con i pensieri di morte. La stessa donna medico ha poi proseguito dicendomi che il momento più difficile è quando rientra a casa e mentre si sfila il cappotto sente che anche i ‘poteri magici’ di cui le sembrava di essere dotata mentre assisteva i suoi pazienti a poco a poco iniziano a svanire.

E’ il vissuto di impotenza e paura che rende necessario, sostiene e alimenta il bisogno e l’illusione di sentirsi forti, il desiderio di poter trovare un vaccino o una cura per il virus.

Il mio intervento è finalizzato alla desensibilizzazione dei vissuti di paura, di angoscia, di impotenza, desensibilizzazione anche delle risposte somatiche associate a questi vissuti… l’elaborazione al momento non è possibile in quanto la situazione traumatica è ancora in atto, non si è conclusa. Sarà possibile lavorare nella direzione di un’elaborazione vera e propria solo quando tutto sarà finito.

Alcuni giorni fa mi sono resa conto che mentre pronunciavo la parola coronavirus, durante l’ EMD, prima di iniziare con la desensibilizzazione, la mia voce ha tremato. E’ stato un attimo, ma mi sono resa conta di essermi profondamente identificata con il vissuto dell’altra persona perchè coincideva esattamente con il mio in quel preciso istante. Ho temuto di non poter essere d’aiuto, ma immediatamente dopo ho pensato “non c’è coraggio se non c’è paura”, le parole che dico alle persone di cui mi occupo per aiutarle a comprendere che la paura è fisiologica, è del tutto giustificata in certe situazioni e che si può parlare di coraggio proprio perchè c’è quella paura, proprio in virtù del fatto che quella paura esiste e si cerca di affrontarla. Questo pensiero mi ha restituito il giusto distacco emotivo che mi ha consentito di proseguire il lavoro con la persona di cui mi stavo occupando in quel momento.

Anche noi psicoterapeuti siamo delle ‘vittime’ ed abbiamo bisogno di un nostro ‘spazio’ di ascolto in questo momento cosi’ difficile emotivamente… come spugne assorbiamo la sofferenza degli altri ed abbiamo a nostra volta bisogno di un contenitore che ci restituisca la nostra sofferenza e quella altrui di cui ci siamo fatti carico, in una forma pensabile e quindi ‘digeribile’.

L’esito più grave del covid-19 è una polmonite bilaterale interstiziale.

Mi rendo conto che il dispiacere per le persone in fin di vita, per quelle che perdono la vita a causa del covid-19 e per i familiari delle vittime, fa eco dentro di me con un dolore più antico che ha origine nel ricordo della perdita di mio nonno che si è ammalato di tumore ai polmoni e che in quel letto di ospedale, mentre consumava gli ultimi giorni della sua vita, avrebbe voluto spararsi pur di porre termine a quella lenta agonia, e … ancora … ha origine … mi rendo conto …. nella perdita di mia nonna che, cardiopatica, proprio di polmonite si è ammalata e il suo cuore si è fermato, ad un certo punto non ce l’ha più fatta e ha smesso di battere. Ricordo l’ultima volta che l’ho vista in quel letto di ospedale, intubata, non poteva parlare ma mi sembravano farlo i suoi occhi che guardavano dritto nei miei, io invece avrei potuto parlarle ma non riuscivo a farlo, sentivo solo un nodo alla gola e tanto dolore. Sono riuscita però ad accarezzarle la mano viola e verde dei lividi per gli aghi delle flebo, ed anche i miei occhi, guardando dentro i suoi, le hanno parlato … credo … senza che me ne rendessi realmente conto … almeno non consapevolmente. Poi ho abbassato lo sguardo, quella volta dovevo proprio lasciarla andare dopo tante altre volte in cui aveva lottato tra la vita e la morte e il suo corpo ce l’aveva sempre fatta.

Si ha sempre un po’, credo, la sensazione di non aver salutato a sufficienza una persona cara che lascia questa vita, che lascia noi, ma io a modo mio sono riuscita a salutarla mia nonna, questo virus invece, il covid-19, impedisce anche questo. Non rende possibile assistere i propri malati, neanche durante le ultime ore di vita, costringe a saperli privati dei loro affetti in un letto di ospedale. Questo virus impedisce di salutarli anche con il rito funebre.

“Chiunque salvi una singola vita, e’ come se avesse salvato il mondo intero; chiunque distrugga una singola vita, e’ come se avesse distrutto il mondo intero.”(dal Talmud)

 

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