• Novembre

    11

    2019
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L’ombra dell’ alpinismo: l’esposizione al rischio

L’ombra dell’ alpinismo: l’esposizione al rischio

Qual è l’ombra .. il lato oscuro dell’ alpinismo? L’esposizione a imprese rischiose. Come mai alcune persone amano scalare le montagne fino ad esporsi a imprese rischiose? Vite intere sono investite in una passione, l’ alpinismo, spesso dagli esiti tragici.

L’analisi delle motivazioni profonde dell’ alpinismo estremo presenta il limite che non si possono fare generalizzazioni sulla base di un numero limitato di alpinisti che si sono sottoposti a indagini sulla personalità. Ciò unito ai significati differenti che assume la montagna per ciascun alpinista fa sì che occorra pensare a una psicologia degli alpinisti, piuttosto che a una psicologia dell’alpinismo. Fermo restando ciò, è possibile individuare tipi di motivazione ricorrenti e quindi tipi di alpinisti.

Una prima differenza è quella tra alpinismo classico che mira alla conquista della vetta e l’ alpinismo dell’arrampicatore che trascura la vetta e privilegia l’estetica della salita, nel senso sia di bellezza del gesto e linearità della via seguita, sia di piacere propriocettivo nell’armoniosa ascesa verso la vetta.

Diverse sono le finalità… c’è la finalità di competizione e di vittoria di chi fa gare di velocità o di concatenazione del maggior numero di cime in un determinato tempo, c’è la finalità dell’alpinista delle grandi vie di roccia e ghiaccio che richiedono più giorni in quota in cui prevale il tema del godimento dei meravigliosi paesaggi naturali, c’è la finalità di esplorazione e ancora quella di collezione di cime da vantare in un trofeo di gloria.

Negli ultimi anni la finalità dell’alpinismo di ricerca, la ricerca dentro di sé in montagna, è stata maggiormente oggetto di attenzione degli psicologi rispetto alle altre finalità. E’ necessario individuare il significato soggettivo, la simbolizzazione soggettiva della montagna.

La simbolizzazione culturale mostra il forte investimento teologico delle cime, sede di dei e occasione per sentirsi più vicini al divino, quindi non stupisce che la montagna possa essere oggetto anche di simbolizzazioni individuali, proiettandovi ognuno tratti della propria personalità e affettività. L’alpinista dialoga con la montagna.

Ad un estremo c’è l’alpinista che si rapporta alla montagna come ad un nemico con cui lottare, da vincere o anche da violare. Questo tipo di simbolizzazione può collegarsi a conflitti con la figura genitoriale. Il conflitto nei rapporti primari coinvolge anche il rapporto con la montagna.

All’estremo opposto c’è il rapporto amoroso di chi attribuisce alla montagna significati materni. In questo caso il gesto dell’alpinista che abbraccia le rocce nell’arrampicata simbolicamente  evoca l’antico contatto affettivo con la mamma.

Altri alpinisti vedono animarsi nella montagna la figura dell’amante e l’ascensione diventa fare l’amore con la montagna.

L’alpinismo è certamente uno degli sport a più alto rischio, la vita è appesa ad un chiodo, ad una corda, in più ci sono i pericoli legati alla caduta delle pietre, ai fulmini, ecc. Si gioca con la vita.

Si evidenzia un sottile gusto a giocare con la vita, soprattutto quando è irragionevole affrontare la scalata in certe condizioni.

L’inconscia presunzione di essere immortale deriva dal diniego della morte come qualcosa che non lo riguarda.

In alcuni la motivazione è data dal bisogno di un’alta soglia di eccitazione per potersi sentire vivere.

Rischiare la vita permette di assaporare meglio ciò che la vita offre. Patrick Edlinger parlando delle sue arrampicate in solitaria ha detto: “Mi permettono di vivere giorno per giorno. Ho un bel sapere che non cadrò ma mi può succedere. Questo rimette in discussione ogni giornata, tu non sai quanto tempo hai da vivere, è un gioco. Non perdi più un attimo, impari ad apprezzare le cose semplici come il sole, l’aria, l’acqua”. Questo tipo di comportamento è una reazione a importanti tendenze ansioso-depressive. Un numero di alpinisti che gioca con la vita non descrive l’intera categoria.

La risposta alla domanda ‘perché un uomo o una donna affrontano fatiche immani, altitudini minacciose, rischi mortali’, non può essere data da una formula generale, in quanto è legata a forze e motivazioni più o meno oscure, più o meno individuali, ma certamente vitali per coloro che, aldilà degli eccessi dell’ alpinismo estremo, praticano questo sport come piacere, come passione.

L’alpinista non è un eroe. In montagna, come per mare e per terra, chi compie progetti audaci non può essere definito un eroe, perché l’alpinista, il navigatore, il camminatore sono uomini e donne fondamentalmente vulnerabili, umani.

Inoltre si deve sfatare l’idea che definisce l’alpinista che parte al superamento di una vetta come un individuo narcisista. In realtà un’impresa simile comporta un gruppo di persone con compiti precisi e la massima collaborazione di ciascuno. Anche chi va da solo nelle situazioni estreme deve scomporsi in più ‘persone’ pur di condividere gioie e paure, di dialogare con un’altra faccia umana.

Una scalata richiede qualità psichiche oltre alle capacità fisiche, in particolare avere sicurezza di sé nel superare le criticità, decidere e agire con logica e concretezza in ogni condizione, saper unire fantasia e realtà, avventura e consapevolezza, essere in grado di concretizzare e condividere il progetto e la sua strategia, avere sopportazione, preparazione fisica, resistenza, puntare alla vetta ma decidere sempre per la vita.

L’alpinista Simon Kehrer ha spiegato che a casa si alza per vedere sorgere il sole mentre fa colazione davanti alla finestra e spesso le viene voglia di scattare una foto anche se ne ha migliaia eppure ogni volta quella montagna nella luce dell’alba le appare diversa e c’è inoltre un rapporto fisico con la montagna. Nelle parole dell’alpinista si coglie lo sguardo affascinato che affonda le sue radici nell’antico sguardo materno che promette nutrimento, contatto, cura permettendo al bambino di esplorare il mondo proprio perché è contenuto dallo sguardo materno. Scoprire il mondo significa esplorare il corpo della madre, come insegna Melanie Klein il bambino scopre l’oggetto madre e attraverso di lei scopre se stesso. Lo sguardo materno funge da specchio ai gesti e alle prime esperienze del figlio.

Quanto scritto non risponde pienamente alla domanda iniziale sull’ alpinismo né ha la pretesa di farlo, cerca piuttosto di mettersi in ascolto di un mondo, quello alpino … un mondo sospeso tra esaltazione e depressione, realtà e sogno, abissi ed estasi.

 

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